Abruzzo Mio

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Abruzzo Mio

Memorie e appunti di viaggi

Fra gli abruzzesi, oltre a quelli già citati, non vanno dimenticati Ettore Janni, Modesto della Porta (così vicino al vivere quotidiano), Benedetto Croce ed altri il cui elenco dettagliato ci toglierebbe parecchio spazio. Questo, senza voler dimenticare gli apporti di altra natura, di chi ha celebrato la propria Regione con mezzi diversi, quelli pittorici e musicali, da Francesco Paolo Michetti a Teofilo Patini, da Basilio Cascella a Costantino Barbella, da Francesco Paolo Tosti a Paolo de Cecco, Antonio di Jorio… Non dimentichiamo che Michetti, Patini e Cascella fossero stati anche fotografi. In effetti, la nascita del mezzo fotografico influenzò subito la pittura. Anche ai nostri giorni i pittori sfruttano la fotografia per la realizzazione dei quadri, ed anzi è sorta una corrente artistica denominata “Mec-Art”, che consiste nello stampare sulle tele emulsionate le pellicole, colorandole in seguito.

Il presente libro fotografico sull’Abruzzo è il riscontro visivo degli scritti di alcuni dei personaggi che abbiamo citato in apertura: “vena selvaggia”, “lussureggiante verzura”,”stupende montagne che s’innalzano minacciose”, “la varietà e la ricchezza della vegetazione”, “fantastica forma delle catene di montagne”, “quadro assai interessante”, “presenza quasi magica”, “mistero fugace”, “campeggia nelle nostalgie” e via di questo passo. Sfogliandolo, ci si può formare un’idea di cosa rappresenti la nostra Regione: un’entità sempre da indagare e che propone ancora spunti d’interesse.

E’ quindi una raccolta di immagini che ne fornisce lo specchio fedele, basata com’è su un progetto finalizzato a scandagliare un mondo di contrasti, in bilico fra antico e moderno: basti pensare ai pastori di dannunziana memoria e allo snodarsi delle autostrade. L’industrializzazione è contrapposta a residui di entità arcaiche, le città all’americana “urtano” contro borghi spopolati, privi di presenze umane, e dove il tempo è sempre lo stesso. La ruggine di antiche solitudini corrode pietre annerite e ne perpetua i secoli.

E’ il divario esistente fra due mondi assai diversi, l’Abruzzo montano e quello marino, con il Gran Sasso e la Maiella a dividerli. I tratturi di una volta sono stati rimpiazzati da veloci arterie di scorrimento che ne accorciano i tempi di fruizione e fanno afferrare meglio il complesso dell’identità regionale, con tutti i pregi e i difetti che ne derivano. La mano dell’uomo ha profondamente modificato e continua a modificare i luoghi, persone e cose di cui alle fotografie, e che vanno seguite in un confronto diretto, per ricavarne similitudini e differenze, sedimentazioni di civiltà extraregionali ed insorgenze autoctone, con particolare riferimento all’età medioevale.

Questa sì che è riuscita a modellare in profondità i segni distintivi dell’Abruzzo, con le sue chiese, insediamenti monastici che sommavano i benedettini ai francescani, i domenicani ai celestini, la nascita di nuovi borghi al posto di quelli decaduti o che risalivano ad epoche anteriori. Chiese ed eremi sperduti fra i massicci montani sono stati “trasferiti” in fotografia e messi a disposizione del più vasto pubblico. La loro esistenza, sconosciuta ai più, ne esce valorizzata. Una processione che si svolge una volta all’anno è un motivo come un altro per la riscoperta di un santuario, e una rocca isolata attira l’attenzione anche per il tempio che sorge ai suoi piedi.

La civiltà che incalza e avanza senza lasciarci un attimo di tregua, non è ancora riuscita (e sicuramente non riuscirà) a cancellare i riti arcaici, anch’essi registrati puntualmente, in un modo o nell’altro, che si tramandano da sempre e che sono rappresentati dalle tante sagre paesane, coagulo di interessi e momento di aggregazione sociale, vera anima del sentire del popolo, di una religiosità che unisce sacro e profano, trasformando in simboli cristiani i miti del paganesimo, dalla festa di S. Zopito a Loreto Aprutino a quella di S. Domenico a Cocullo, sino alle farchie di Fara San Martino, dove la componente ludica si sposa felicemente al ricordo di un santo.

Anche Ovidio ci parlava dei serpenti, in fin dei conti: è la riproposizione nuova di una cosa vecchia di millenni. Così facendo, l’antico si salda alla contemporaneità e ne consegna il sigillo a noi testimoni di un ulteriore corso della storia.

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